lunedì 10 settembre 2012

Conosci te stesso



 
"Potete avere tutti i titoli accademici del mondo, ma se non conoscete voi stessi, siete estremamente stupidi. Conoscere se stessi è il fine ultimo dell’educazione. Se non c’è autoconoscenza, il semplice fatto di raccogliere dati o prendere appunti in modo da superare gli esami è una maniera assai stupida di esistere. Potete essere capaci di citare la Bhagavadgita, le Upanishad, il Corano o la Bibbia, ma a meno che non conosciate voi stessi, siete come pappagalli che ripetono le parole altrui senza capirle. Nel momento in cui cominciate a conoscere voi stessi, anche se poco, si è già messo in moto uno straordinario processo di creatività. [...] A partire da questo potete andare sempre più in profondità, all’infinito, poiché non c’è fine all’autoconoscenza" (J. Krishnamurti, La ricerca della felicità, Milano, Rizzoli 1997). 

 Tutti crediamo di conoscerci e pensiamo: "chi meglio di me può sapere chi sono!" Ma è davvero così? Quando ci innamoriamo, quando ci arrabbiamo, quando prendiamo delle decisioni, in realtà siamo spesso mossi da desideri e paure inconsce, da condizionamenti sociali, da imprintings familiari o nazionali, da modelli di comportamento che abbiamo interiorizzato in modo coatto e inconsapevole. Un secolo fa, grazie a Freud, si è scoperto che una vasta area del nostro essere — l'inconscio — ci è del tutto sconosciuta e nondimeno influenza largamente la nostra esistenza, in bene e in male. Jung ha poi allargato il concetto, ipotizzando che oltre al sub-conscio — la zona oscura sede dei traumi, delle paure e delle ombre — esista anche un inconscio collettivo, sede di archetipi che influenzano l'intera umanità. Infine altri studiosi ancora (Assagioli, Maslow, Wilber etc.) hanno proposto l'esistenza di un Super-conscio, vale a dire una zona anch'essa fuori dalla nostra coscienza ma niente affatto oscura, anzi assai luminosa, sede dei tratti più elevati dell'essere umano: i nostri bisogni esistenziali più profondi e importanti, le nostre caratteristiche più vere, i nostri sentimenti migliori e i nostri talenti più preziosi. 

Per riassumere, il sub-conscio è la sede di ciò che riteniamo troppo brutto o doloroso per poterlo ammettere alla coscienza; il super-conscio contiene invece ciò che riteniamo troppo bello per essere vero e nostro; la coscienza infine contiene quella ristretta parte di noi stessi che i valori e le credenze della nostra cultura ci permettono di ammettere senza vergogna né scetticismo. Noi abbiamo coscienza solo di una minima parte di noi stessi, mentre sappiamo poco o nulla di ciò che sta al di sotto della coscienza (il sub-conscio), di ciò che sta al di sopra (il super-conscio) e di ciò che sta attorno (l'inconscio collettivo). Possiamo però colmare queste lacune e esplorare questi mondi interiori, ed è un viaggio che vale la pena di fare perché lì risiedono molte delle cause dei propri problemi e molte delle capacità utili a risolverli. 















Il percorso del conoscersi non riguarda solo gli aspetti psicologici; l'essere umano è un'entità multidimensionale, vale a dire costituita dai quattro livelli interconnessi corpo, emozioni, mente e spirito. Conoscere se stessi vuol dire quindi non solo contattare la psiche (l'inconscio, la mente e le emozioni) ma anche il corpo e lo spirito. Non solo, ma riconoscere il fatto che sono tra loro inestricabilmente collegati, che ognuno influenza tutti gli altri e che solo attraverso una armonia tra essi è possibile pervenire alla salute globale. Conoscere se stessi è in primo luogo un atto introspettivo che richiede di sapersi osservare e saper interpretare il reale significato delle proprie sensazioni, emozioni, intuizioni — ma siccome né la famiglia, né la scuola ci hanno insegnato a farlo, dobbiamo impararlo da altre fonti, che proprio grazie alla cultura emergente sono sempre più diffuse, dai libri ai seminari, dalla psicoterapia ai corsi di meditazione.

Oltre al saper osservare se stessi è utile anche sapersi guardare intorno, saper cogliere quei segnali che le altre persone e le circostanze della vita hanno in serbo per noi. Ogni accadimento, ogni situazione, ogni incontro o relazione con una persona è un'esperienza che — bella o brutta che sia — può insegnarci qualcosa. Qualcosa che riguarda in primo luogo noi stessi: ogni persona o esperienza è insomma come uno specchio in cui — se sappiamo guardare con attenzione — possiamo vedere riflesse parti di noi che al momento non conosciamo ancora o che non valutiamo correttamente. Ecco allora che di fronte ad ogni evento della nostra vita dovremmo chiederci: "Che cosa posso imparare da questa esperienza o da questa persona? Con quale parte di me che ancora non conosco essa può mettermi in contatto?" Conoscere se stessi è essenzialmente un ampliare e affinare la propria consapevolezza, cioè la capacità di prestare attenzione a ciò che accade dentro e fuori di noi, interpretandolo correttamente. Ma per far ciò dobbiamo essere il più possibile liberi da pregiudizi, da condizionamenti, da credenze e schemi culturali, politici e religiosi, che possono distorcere la nostra percezione e il nostro giudizio. Nessuno è esente da pregiudizi e condizionamenti; se però accettiamo questa realtà con umiltà e disponibilità a metterci in discussione, possiamo ricercare in noi i pregiudizi e i condizionamenti, e piano piano ripulirci e liberarci. 

Il percorso di autoconoscenza comincia proprio da qui. Tuttavia quasi nessuno intraprende un cammino come quello della ricerca interiore per puro desiderio di conoscenza: si può anche essere convinti della sua importanza senza peraltro mai iniziare concretamente a percorrerlo. Perché ciò avvenga, perché la nostra pigrizia e la nostra paura del cambiamento vengano superate occorre una motivazione più forte, più drammatica se vogliamo, e questa motivazione nasce molto spesso da una crisi. L'importanza evolutiva della crisi In questi ultimi anni si parla continuamente di crisi, e poche parole suscitano ansietà come questa. Vorremmo poterne fare a meno e quando compare nella nostra vita tentiamo con ogni mezzo di combatterla. Ma è davvero così negativa, la crisi, o non è invece una tappa insostituibile di ogni percorso evolutivo? In effetti, la crisi svolge importanti funzioni sul piano della crescita: è un segnale forte che qualcosa non va nella nostra vita, e che non va da lungo tempo. Combatterla dunque non serve a niente, anzi, peggiora le cose, intorbida le acque, è altrettanto demenziale che ignorare o eliminare la spia rossa che si accende sul cruscotto della nostra auto e che ci segnala un guasto: non solo eliminarla non risolve il guasto ma è anzi il modo sicuro per peggiorare la situazione La crisi è un sintomo, non la causa della nostra sofferenza, e non è il primo, ma l'ultimo di una lunga serie di segnali che noi abbiamo ignorato. 

Se si arriva alla crisi significa che abbiamo accumulato grande insoddisfazione e sofferenza senza affrontare i problemi che la generano; la crisi è il traboccare di un vaso che da tempo andava riempiendosi di lamenti e bisogni inascoltati della nostra anima e che ci obbliga a dialogare finalmente con noi stessi (o col nostro partner, figlio o genitore se si tratta di una crisi di relazione) per capire cosa c'è che non và. Più siamo sordi ai messaggi di sofferenza, più rinviamo il prendere consapevolezza di ciò che non va nella nostra vita e nelle nostre relazioni, più improvvisa e tempestosa sarà la crisi — possiamo rinviarla ma non annullarla, e più in là si va più sarà grande la pena. Sono molti i modi in cui facciamo orecchi da mercante ai messaggi di malessere e sofferenza: taluni individui, molto egocentrici, si chiudono nel loro mondo illusorio in cui tutto sembra andare bene; altri si disperdono e distraggono in inutili ed estenuanti battaglie contro tutto e tutti; altri si immergono nel lavoro fino al completo isolamento e altri ancora, pur avvertendo il malessere, temporeggiano per anni e anni e "sopportano" con rassegnazione. Ma fortunatamente, per quanto sordo ai messaggi dell'anima e refrattario a qualunque crisi, ognuno, prima o poi, si trova a fare i conti con questo evento, seppur in forma tanto più esplosiva e drammatica quanto più a lungo è stata rinviata. 

Per comprendere meglio la valenza delle crisi esistenziali, niente è più efficace delle dirette testimonianze. 

Eccomi all'improvviso fermo, dopo anni di corsa frenetica, a chiedermi cosa sto facendo della mia vita. Dove sono andati a finire i miei sogni infantili, i miei ideali adolescenziali? Che fine hanno fatto le mie speranze di vivere in un mondo migliore, di contribuire a crearlo, la mia volontà di non farmi inglobare passivamente da quella società che riconoscevo così piena di assurdità, di falsità, di conflitti? Durante il liceo e l'università mi era parso tutto chiaro, poi il contatto col mondo del lavoro — con le sue logiche egoistiche, i suoi clientelismi, le sue chimere — mi aveva piano piano disilluso, indurito, indotto ad uniformarmi, a rafforzare le mie corazze, ad essere più cinico, meno propenso agli ideali e più orientato all'ambizione e alla materialità esteriore. Visto che non potevo, da solo, sperare di cambiare il mondo, avevo finito, quasi inconsapevolmente, passo dopo passo, per scendere a compromessi con quel sistema che tanto desideravo cambiare. Un fenomeno, questo, accaduto a molti altri "utopisti", figli degli anni '60 e '70. Solo che adesso sentivo che stavo sprecando la mia vita, che non era quello ciò che cercavo, che a forza di compromessi avevo finito per rinunciare a ciò che più anelavo. Non si vive di sola utopia, ma certo neppure di solo materialismo. Che difficile compito armonizzare questi due estremi, trovare un punto di equilibrio. (...) 

Era inevitabile che dopo qualche anno di una tale vita il mio spirito reclamasse un maggiore spazio, una maggiore armonia e profondità. Era come se sentissi una voce — la mia stessa voce — che mi invitava a tornare sulla mia strada, più vicino al mio vero sé. Ma esisteva davvero una strada che era la mia strada, e se sì, dov'era? E come riuscire a contattare il sé profondo in una società che sembra fatta apposta per fartene allontanare? 

 La sofferenza da dove viene? E' l'opposto della gioia (credevo). Essendo stata tratta in inganno dalla mancanza di vie di mezzo, decisi di coniare e tener fede ad un motto: "non soffrire più", e ero riuscita perfettamente nell'intento, ma il prezzo che mi trovai a pagare era degno di un usuraio! Non sentivo, davvero, più niente, neanche la gioia e la felicità; la mia vita era scandita da ritmi sincopati e martellanti che componevano una fantasia travolgente ed il tempo, a sua volta, era scandito dall'allontanarmi sempre più da me stessa. La mia faccia era una maschera così come i miei vestiti e sugli altri riversavo fiumi di parole e più parlavo e più mi allontanavo, io non vivevo, perché non esistevo!

 Non respiravo, non ascoltavo, non guardavo e non sentivo. Correvo dietro ad un ideale. Un ideale di madre che dovevo incarnare per me e le mie figlie, un'ideale di moglie, di figlia, di donna e tutto questo per essere accettata, amata, riconosciuta. 

  La crisi è dunque una fase inevitabile di ogni processo di crescita: solo a seguito di una crisi l'individuo può prendere consapevolezza della sua insoddisfazione, dei lamenti e bisogni della sua anima; solo grazie alla sofferenza di una crisi le persone accettano di mettersi in discussione; solo il dilagare delle emozioni riesce ad aprire un varco nella corazza dell'io, nelle rigide abitudini e nei meccanismi di difesa che ognuno ha sviluppato dentro e attorno a sé. E' solo a questo punto che l'individuo è davvero pronto ad intraprendere un percorso di autoconoscenza, di cambiamento e di crescita, e oggi che la crisi è divenuta fenomeno assai diffuso, molti sono gli individui pronti al cambiamento. Una volta riconosciuta l'esigenza di un cambiamento, il primo passo per entrare in contatto con la propria vera, intima essenza consiste nel liberarsi da condizionamenti e pregiudizi, disidentificandosi dal pensiero razionale e risvegliando il sentire interiore. Dal condizionamento alla libertà interiore Ogni essere umano, nel suo percorso di crescita, "eredita" inevitabilmente il linguaggio, le credenze, i valori, le regole e i ruoli tipici del proprio popolo, della propria famiglia e del gruppo sociale di appartenenza; in altri termini, apprende il loro modo di vedere la realtà e di vivere la propria vita. Questo processo di inculturazione e socializzazione è essenziale per rassicurarci, da bambini, e per consentirci di orientarci nel mondo e divenire membri riconosciuti della società, ma c'è un prezzo da pagare: quanto più introiettiamo questa eredità culturale, tanto più ci abituiamo a vedere la realtà solo ed esclusivamente attraverso certe lenti preconfezionate e a ragionare secondo determinati schemi mentali. 

La nostra mente in effetti è per certi versi simile a un computer, programmato in larga misura da altre persone, dai nostri genitori, dalla scuola, dai libri, dai mass media. Certo, vi entra anche un po' della nostra esperienza diretta, ma è poca cosa: non più del 5-10 per cento di ciò che sappiamo e crediamo vero deriva dalla nostra esperienza personale, tutto il resto è qualcosa che abbiamo letto su libri o giornali, che abbiamo visto e udito al cinema o alla televisione, che ci hanno detto i nostri genitori e insegnanti, che abbiamo sentito in giro. Questo processo di apprendimento "dagli altri" presenta importanti vantaggi, perché ci consente di velocizzare il nostro orientamento nel mondo senza che ogni generazione debba ripartire dall'età della pietra ma possa anzi progredire ergendosi sulle spalle di coloro che l'hanno preceduta. Tuttavia, quegli stessi schemi che ci aiutano in un primo tempo a comprendere il mondo possono diventare col tempo un ostacolo formidabile alla nostra crescita individuale e collettiva se non si evolvono fluidamente: è quello che è avvenuto alla nostra civiltà, e a ogni altra civiltà. Ogni civiltà, una volta raggiunto un certo grado di organizzazione sociale tende infatti ad irrigidirsi su se stessa, in uno strenuo mantenimento di principi, credenze, valori che un tempo erano nuovi e funzionali ma che poi, non evolvendosi, divengono sempre più anacronistici. 

Questo fenomeno è spiegabile sociologicamente con la tendenza conservatrice di gruppi e classi dominanti a mantenere il potere e lo statu quo, ma è evidente che c'è anche una dimensione individuale da tenere di conto. Certo, una qualche stabilità nella struttura percettiva, un qualche ordine o schema mentale è utile, spesso indispensabile per non perdersi in un mare di input sensoriali. Il problema è che gran parte degli schemi, credenze, valori di una società vengono perpetuati a prescindere dalla loro effettiva validità, talvolta per ignoranza o superstizione, più spesso per altri e non sempre edificanti motivi. Ancora oggi, varcata la soglia del duemila, ci portiamo dentro modi di pensare vecchi di secoli o millenni, con conseguenze tutt'altro che benefiche sia sul piano collettivo che su quello individuale . E soprattutto, ci portiamo dentro l'illusione di fondo che le nostre idee, valori, credenze siano davvero nostre, mentre invece sono in gran parte il frutto dei condizionamenti ricevuti, della inculturazione subita. Se vogliamo sviluppare davvero la nostra individualità e realizzare noi stessi, il primo passo da compiere, secondo la new age, è quello di uscire dal gregge, disidentificandoci da ciò che non è nostro, dalle idee, credenze, valori, schemi mentali e comportamentali che abbiamo ereditato passivamente; solo così possiamo scoprire chi siamo veramente e iniziare a vivere una vita realmente nostra. 

Anche l'identità — il senso di se stesso che l'individuo va formandosi nel suo percorso di crescita — risente di questo processo di condizionamento sociale del pensiero e di distorsione dei bisogni, e una delle sue conseguenze più nefaste di questo stato di cose è il nascere, nelle persone, di una sorta di "falsa identità", cioè una idea di se stessi che non corrisponde al vero, all'essenza profonda e alla unicità insite in ognuno di noi ma che deriva piuttosto da maschere e modelli ai quali la società ci induce a conformarci. E la società è impersonata in primo luogo dai nostri genitori e parenti, dagli insegnanti, dai preti, dagli amici, che ci influenzano talvolta per manipolarci, talaltra ispirati dalle migliori intenzioni, semplicemente ripetendo inconsapevolmente quegli stessi "errori" di cui sono stati in passato a loro volta vittime. Oltre a tali persone, con cui ci rapportiamo direttamente, ve ne sono anche altre che, pur non essendo così vicine a noi, risultano alla fine non meno influenti, anch'esse in modi talvolta inintenzionali, talaltra voluti e subdoli: l'eroe di un cartoon o di un fumetto, il protagonista di un film, i personaggi di un libro, il giornalista di un quotidiano o di un TG e così via. E quanta carta stampata, quanto cinema, quanta TV nella vita di ognuno di noi! La scuola svolge, come è ovvio, un ruolo centrale nel trasmettere la cultura e il sapere e anche nel formare l'identità di ognuno di noi. Purtroppo, come abbiamo visto, ciò che la nostra scuola chiama "educazione" è semmai una inducazione, cioè un inoculare nell'individuo credenze, valori, norme morali che influiranno potentemente sulla personalità e sul senso di sé, vale a dire sul centro pulsante della psiche. Lungi dallo stimolare la consapevolezza e l'apertura mentale degli individui, la scuola ha finora per lo più teso ad uniformarli e a fornirgli conoscenze e giudizi preconfezionati invece di insegnargli a utilizzare le capacità conoscitive e di giudizio autonomo proprie di ogni essere umano. 

E' così che pian piano si viene a perdere la curiosità e la fresca ingenuità dell'infanzia — quando niente era scontato, tutto era nuovo e magico — e ci si adagia nella rassicurante certezza delle etichette, delle definizioni, delle abitudini, diminuendo la nostra capacità di entrare in contatto diretto col mondo e riducendo anche la nostra autonomia e creatività. E' vero che qualcosa è cambiato in questi ultimi decenni, ma è ancora troppo poco, e spesso più nell'apparenza che nella sostanza. Spostandoci dalla scuola ai mass media il discorso non è purtroppo migliore. Noi siamo ciò che ingeriamo e questo vale non solo per il cibo, ma anche e soprattutto per le idee, le parole, i simboli, le immagini, le storie con cui nutriamo la nostra mente, e finora l'offerta culturale dei media è stata protesa alla quantità più che alla qualità, ad un consumismo superficiale e materialistico i cui ingredienti base vanno dalla violenza al denaro, dalla sessualità morbosa al potere, dalla competizione selvaggia al dominio e via dicendo. Insomma, più che risvegliare le coscienze i media tendono, come la scuola, ad addormentarle o a lasciarle dormire. Eppure, radio, TV e giornali potrebbero, se usati bene, essere strumenti formidabili per stimolare la consapevolezza delle persone. Invece, salvo rari casi, il livello qualitativo è alquanto scadente, massificante e l'obiettività una chimera. (per approfondimenti cfr. E. Cheli, La realtà mediata. L'influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, Franco Angeli, 1992).

Il bisogno di essere se stessi Vivere una vita impostata su valori e modelli standard decisi da altri è forse il modo più semplice e rassicurante di esistere, ma non ci potrà mai dare un senso di realizzazione e di vera soddisfazione, e di ciò presto o tardi molti si rendono conto. E' appunto da un profondo senso di insoddisfazione esistenziale che nasce oggi, in un sempre maggior numero di individui, l'irresistibile impulso di andare alla ricerca di se stessi, per scoprire il proprio vero essere e trovare un senso più pieno e appagante per la propria vita, una qualità dei rapporti umani più vera e soddisfacente, un orientamento all'essere e non solo all'avere. Si tratta di persone che magari non sanno niente di cultura olistica emergente ma che comunque si interrogano sulla strada da percorrere nella vita e non si accontentano più di risposte preconfezionate, di dottrine e ideologie, di maschere e corazze, ma desiderano cercare in prima persona, scoprire ciò che veramente sono ed esprimere finalmente la propria unicità e creatività.

 Ogni uomo rimane incompleto, come un seme mai germogliato, finché vive inconsapevolmente, come un automa, seguendo le abitudini e le consuetudini sociali senza mai interrogarsi sulla loro effettiva validità e senza osservare gli effetti che tali abitudini producono su di sé e sugli altri. Finora la maggior parte delle persone ha delegato ad altri il proprio potere di autodeterminazione rinunciando, in cambio di tranquillità e rassicurazione, ad andare oltre i confini ereditati dalla propria cultura. Tuttavia, finché seguiamo i criteri, i giudizi e le convinzioni instillatici da altri, non potremo mai sapere qual'è la nostra vera strada, poiché saremo sviati e confusi da falsi obiettivi, da bisogni indotti, da modelli da imitare, da ideali irraggiungibili, da apparenze e comportamenti che non ci rappresentano, che non esprimono ciò che veramente siamo. Ripulire la nostra mente dai condizionamenti Come sostengono da millenni molte scuole di autoconoscenza e molte tradizioni mistiche orientali, la mente mènte; è inevitabile che mènta, come può esprimere la nostra verità se gran parte dei suoi contenuti e processi di funzionamento sono stati programmati da altri? Per stabilire un valido contatto con se stessi e riuscire a cogliere e coltivare ciò che giace nel profondo di ognuno di noi, è dunque necessario compiere una bella pulizia nella nostra mente. Dobbiamo cioè vagliare attentamente tutto il bagaglio di idee, di convinzioni, di valori che la società ci ha instillato o che noi stessi abbiamo acriticamente raccolto fin dalla nostra infanzia, e separare quindi il grano dal loglio, vale a dire eliminare tutti i pregiudizi, i dogmi, i tabù, i falsi ideali che offuscano la nostra essenza vitale e la nostra lucidità interiore. 

Solo così è possibile riacquisire il proprio potere — non il potere su altre persone ma il potere personale, il potere cioè di essere se stessi e dirigere autonomamente e creativamente la propria vita: un potere che ogni essere umano possiede in nuce ma che finora è stato indotto a ricercare fuori da sé, nelle ideologie, in rigide istituzioni sociali, in divinità dispotiche e vendicative, in condottieri politici, in pastori di anime e via dicendo, invece che nell'unico luogo dove può essere davvero trovato, e cioè nel profondo di sé. La vera libertà inizia così, con quest'opera di messa in discussione e di ripulitura, con questa assunzione di responsabilità, con la crescente consapevolezza che dentro a quell'abito, dietro a quella maschera che indossiamo e con cui ci identifichiamo c'è qualcuno molto più vasto, fluido, luminoso di quanto osassimo e sperassimo immaginare, qualcuno che da lungo tempo attende di essere risvegliato, per ampliare gli orizzonti della propria esistenza, riattizzare la propria fiamma vitale e sperimentare la vera gioia di vivere. Come si possa in pratica ripulire la mente dai condizionamenti è uno dei temi su cui insistono maggiormente libri e seminari ispirati alla nuova cultura. Ovviamente non può essere la mente stessa a compiere questa opera di ripulitura: sappiamo bene che per essere efficace, un controllo deve essere effettuato da un altro soggetto distinto da colui che viene controllato.

 E allora? A chi affidare il ruolo di controllore? Dato che il sentire non è manipolabile direttamente, esso rappresenta una valida possibilità per verificare le nostre "idee", convinzioni, valori e vedere se il sentire che ne risulta è coerente o no al pensare: potremmo così scoprire che alcuni cibi che credevamo cattivi li sentiamo invece buoni, e viceversa, altri decantati dalla pubblicità come ottimi, si rivelano alla prova dei fatti di ben altro tenore. Tutto può essere sottoposto a verifica: non solo il cibo per il corpo, ma anche quello per la mente — come libri, giornali o programmi radio-TV — e poi il cibo per le emozioni e anche quello per lo spirito. Tuttavia, quando parliamo del sentire come strumento tramite cui distinguere le mele buone da quelle marce, non ci riferiamo al sentire "normale" dell'individuo medio, che è un sentire per lo più atrofizzato, ma ad un sentire risvegliato e affinato.